ATTUALITÀ. Pigri, svogliati, apatici, distratti, senza spina dorsale. O anche drogati, problematici, depressi, disturbati, privi di ideali, di valori, di virtù. La malattia mentale diventa un alibi. O uno stigma che aleggia e rimane attaccato come un marchio indelebile ad un’intera generazione.
I ragazzi di oggi, la Generazione Z, ha apparentemente tutto. Internet, i social, i soldi, la possibilità di svagarsi, uscire, la libertà di fare e di essere ciò che si vuole. Niente limiti, nessuna barriera, zero vincoli né doveri onerosi che gravano su di loro. Cercano solo il divertimento, le soluzioni facili, nuovi figli dei fiori dall’anima nera, dalla mente oscura, contagiati e, a loro volta, untori del male.
Ma è realmente così?
Figli di una generazione di genitori disillusi, impegnati, occupati eccessivamente dal lavoro, precario, delusi e frustati dai fallimenti di gioventù dei loro tempi, i ragazzi di oggi vivono in un’epoca dai contorni aleatori e sbiaditi, incerti del proprio futuro e delle proprie radici, offuscati dalla instabilità e problematicità del momento storico che li ha generati, confusi dai pericoli e dagli errori del passato di cui portano inspiegabilmente il fardello, e dalla nube nera che incombe come una minaccia mortale sul proprio avvenire.
Eppure dentro hanno un fuoco indecifrabile, impenetrabile, che li consuma come la cera di una candela che brucia senza far luce a nessuno.
Il grido della loro voglia di lottare, la forza della convinzione negli ideali che li animano rimangono inascoltati, spesso, inespressi, il più delle volte.
Eppure la cronaca li descrive, quasi sempre, come criminali, l’insidia del rovesciamento dell’ordine, minaccia della fine del mondo civile. In uno scaricabarile di colpe, che adesso tocca loro affibbiarsi, c’è chi non li biasima, anzi quasi è dispiaciuto della loro condizione di inetti e disgraziati, forse un po’ codardi – ma d’altronde non hanno fatto la guerra, e nemmeno la leva militare!!- che subiscono passivamente il proprio destino, consapevoli di non poter fare la differenza, perché la “rivoluzione copernicana” della sovversione dei sistemi socio-economici precostituiti spetta ancora ai ribelli incravattati della generazione dei loro padri.
Che la Z non sia una generazione di santi è fuor di dubbio. Che sia un gregge omologato di pecore, o una masnada di vandali e criminali, assolutamente ridicolo.
Nel fine settimana ragazzi e ragazze inondano le strade, alla ricerca di divertimenti, amori, conquiste, con una furia ed una frenesia tipiche di chi ha paura di essere dimenticato o di perdersi la vita. E con un’esasperata e straziante gioia, sofferta dalla loro condizione di relegati ai margini di una società che non li riconosce, che non vuole comprenderli, che non li tiene in considerazione neanche nella più naturale misura di delineazione di politiche che a loro dovrebbero essere dirette, inseguono l’amnesia. Fiumi di alcool, droghe leggere, pasticche di ogni tipo servono ad alleggerire il peso di un’esistenza che non sanno a quale scopo sia rivolta, o di un dolore di cui non conoscono l’origine.
Non c’è la pretesa, raccontando di questi giovani spaesati, di affermare che essi siano gli unici che nella storia dell’umanità abbiano conosciuto e conoscano la sofferenza, l’inquietudine di un vivere precario, l’incertezza del domani, l’angoscia che alla loro età è riconducibile. Ma per certo, sono i più abbandonati tra i paria di tutte le generazioni della storia. Abbandonati a se stessi, alla loro marcata sensibilità, o anche alla loro incapacità di avere presa sul mondo. Lasciati soli in una situazione di generale decadimento e di complessiva criticità, di smodata e costante rincorsa del successo, di una cultura violenta nei toni e nelle azioni.
E di questa violenza che li ha generati, cresciuti e nei cui sistemi di giustizia primitiva- una giustizia “fai da te”, del “occhio per occhio, dente per dente”, non quella della magistratura che segue un iter lunghissimo e non sempre approda a conclusioni di fatto legittime- si inseriscono con agevolezza, sinuosamente, come il pezzo mancante di un puzzle di cui si completa la soluzione, spesso sono anche il frutto più malato, la manifestazione più rabbiosa ed impetuosa.
L’aggressività li ha corrotti, la brutalità, a tratti, contaminati. Come un’infezione virulenta, che si propaga nell’aria, la violenza contagia tutto ciò che investe, deformandone i contorni, rompendone i legami, ricomponendo nuove forme- abbrutite-, svilendo i volti, danneggiando i corpi e gli spazi. Questa malattia infettiva, che nasce dal degrado e ne genera forme più intricate e meschine, non è un guasto di programmazione, non nasce da una bolla infestante scoppiata per caso, né tantomeno da una temibile punizione divina per i peccati dell’uomo. Affonda le sue radici in meccanismi consolidati di un sistema socio-politico che esaspera la marginalità piuttosto che rimarginarla, che isola la diversità piuttosto che renderla un corroborante fattore di pluralità, che esacerba la rovina delle periferie -isolandone i “derelitti” che ci vivono- al posto di integrarle in un più ampio ed organico programma di rivitalizzazione dei territori, che sopprime il dissenso e inasprisce i toni e le misure per soffocare il pluralismo democratico.
E poi piange le vittime di un sistema che ha insito nelle sue premesse il fallimento. Geme, soffocatamente, dinanzi ai morti che l’espressione della violenza giovanile produce, ma mostra un volto altrettanto feroce, intensificando le pene, e non puntando, piuttosto, sulla formazione dei giovani e sulla rieducazione degli adulti. Condanna la violenza di genere, ma ne nega i presupposti sociali, mostra cecità rinnegando le strutture che la tessono e di cui sono fili intrecciati indistricabilmente. Apre le frontiere della modernità, ma erge muri invalicabili dinanzi a chi fugge dalla distruzione della guerra, dalla povertà, dal totalitarismo, dai risultati medioevali che l’Occidente ha innescato.
E si stupisce della confusione che genera nelle menti dei giovani, che per la prima volta solcano il territorio della coscienza individuale e si dimenano per conoscere la vita in comunità. Annebbiati da un’ipocrisia collettiva, da una bolgia complessiva, privi di punti fermi cui aggrapparsi, i famigerati giovani della Generazione Z imparano a vivere. Come tutti.