Questa sera Inter e Milan si sfideranno, in quel di Riyad, per decretare chi sarà la vincitrice dell’edizione 2025 della Supercoppa Italiana. Una competizione che, ancora una volta, si è disputata in Arabia Saudita, confermando una tendenza ormai consolidata che vede il calcio italiano inseguire gli introiti economici piuttosto che il legame con i suoi tifosi.
Luigi De Siervo, amministratore delegato della Lega Serie A, ha difeso questa scelta dichiarando che “La partnership con l’Arabia Saudita è strategica per valorizzare il nostro brand a livello internazionale. Gli investimenti sauditi ci permettono di sostenere l’intero sistema calcio in un momento difficile.”
Dichiarazioni che trovano eco anche nelle parole di altri dirigenti italiani, i quali ribadiscono l’importanza di attrarre risorse esterne per mantenere competitivo il calcio italiano. Tuttavia, questa visione non tiene conto del prezzo pagato dai tifosi, i veri protagonisti dello sport. Giocare in una nazione lontana come l’Arabia Saudita rende praticamente impossibile per la maggior parte dei sostenitori delle squadre coinvolte seguire dal vivo la loro squadra del cuore. I costi proibitivi per il viaggio e le difficoltà logistiche rappresentano un ostacolo insormontabile per chi vorrebbe partecipare.
Questo spostamento geografico, dettato da accordi commerciali, allontana ancora di più il calcio italiano dalla sua base e alimenta un senso di estraneità tra il sistema calcio e i suoi tifosi. Le partite si trasformano in eventi televisivi, perdendo quella magia e quel calore che solo la presenza dei tifosi può garantire.
Un altro aspetto da considerare è che la scelta di giocare in Arabia Saudita non è solo una questione di denaro, ma va ben oltre. Si tratta di una vera e propria vendita del “prodotto calcio” al miglior offerente, che permette a paesi come l’Arabia Saudita di utilizzare il calcio come strumento per il cosiddetto “sportwashing”.
L’investimento nel calcio diventa un modo per mascherare le violazioni sistematiche dei diritti umani che avvengono nel paese, come quelle contro le donne e la comunità LGBTQIA+. L’Arabia Saudita ha recentemente attirato l’attenzione mondiale per le sue politiche restrittive nei confronti delle donne, che includono il divieto di guida e una limitatissima libertà in tanti altri aspetti della vita quotidiana. Le organizzazioni per i diritti umani hanno più volte denunciato le gravi violazioni dei diritti fondamentali, tra cui la repressione della libertà di espressione e le persecuzioni contro le minoranze sessuali.
Secondo Human Rights Watch, l’Arabia Saudita ha “iniziato a utilizzare il calcio e altri sport per migliorare la propria immagine internazionale, senza fare i cambiamenti necessari sul piano interno”. Inoltre, Amnesty International ha sottolineato che “l’Arabia Saudita continua a esercitare il controllo assoluto su tutti gli aspetti della vita pubblica e privata, mentre sfrutta eventi sportivi per distrarre l’opinione pubblica dalle sue politiche autoritarie”.
La domanda che molti si pongono è: a cosa serve attrarre milioni di euro se il risultato è svuotare le competizioni del loro valore emotivo mentre si contribuisce a legittimare regimi autoritari che non rispettano i diritti umani? Probabilmente i dirigenti del calcio italiano farebbero meglio a concentrare le loro energie sul rilancio di un movimento in crisi, cercando di restituire credibilità e bellezza al gioco.
Il calcio italiano non ha bisogno solo di investimenti, ma di una visione: una visione che rimetta i tifosi al centro e che restituisca dignità alle competizioni, privilegiando la qualità delle partite piuttosto che la loro vendibilità al miglior offerente. Con una visione più etica, il calcio potrebbe tornare a essere un motore di cambiamento positivo, sia all’interno che all’esterno del campo, senza compromettere i principi fondamentali che dovrebbero guidarlo.