di Romano Pesavento

Nella primavera del 1991, mi ricordo di aver trovato nei testi di qualche letteratura italiana il nome
di Enrico Pea, che attirò la mia attenzione e il mio interesse immediatamente; non posso oggi
rammentare con certezza come e perché mi ritrovai di fronte a tale autore, ma, sicuramente, in quel
periodo amavo viaggiare lungo le”vie galattiche del Novecento”;, alla ricerca di novità e,
probabilmente, l’aver letto alcune opere di Giuseppe Ungaretti mi incoraggio in tale direzione:
entrambi avevano vissuto gli anni della gioventù in Egitto e ad Alessandria avevano consolidato la
loro amicizia, soprattutto durante i gloriosi anni della “Baracca rossa”, luogo di ritrovo di alcuni
intellettuali rivoluzionari anarchici.

Quello che più mi incuriosii fu sicuramente l’immagine del suo profilo stampata in grigio sui libri:
un vecchietto dalla barba lunga e bianca, un po’ simile, per taluni aspetti, a quella dell’americano
Walt Whitman, con gli occhiali e quello sguardo severo, terso, umile e penetrante. In
quell’occasione, lessi quanto le antologie scolastiche mi permettevano di reperire e mi feci un’idea
dello scrittore piuttosto nitida, benché non supportata da vaste letture: un uomo fuori dagli schemi,
eppure custode delle tradizioni popolari; profondamente “eversivo”, non solo in senso politico, ma
da intendersi in senso lato: uno spirito totalmente devoto alla libertà più assoluta di pensiero. In
definitiva, la vicenda individuale dell’artista si sostanziava di un’umanità consapevole, profonda, ma
mai melensa; di un intelletto acuto e lucido; di una cordialità antica e schiva, da montanaro saggio.
Chiamato in servizio nell’ottobre del 2014 ad insegnare presso l’istituto secondario alberghiero di
Seravezza, mi sono ritrovato proprio nelle terre natali del letterato. Ero arrivato nella “piccola Parigi
del Centro-Nord”, ai piedi delle Alpi Apuane, così veniva soprannominato argutamente il paesino
nella prima metà del Novecento, per l’intenso fervore intellettuale-artistico che si respirava. Girando
per le viuzze, ho preso coscienza che poco era rimasto del passaggio di un simile personaggio; forse
a causa dei suoi rapporti conflittuali con i compaesani, i quali non ne avevano compreso
integralmente il valore, secondo la ben nota massima latina: “Nemo propheta in patria”. Un mezzo
busto in marmo, posto nella piazzola lungo la quale si incontrano i fiumi Serra e Vezza dando vita al
Versilia, ritrae l’effigie pensosa del poeta, con la sua barba socratica e il basco tipico degli
intellettuali francesi, una via posta di fronte alla statua, una scuola media nella località di
Marzocchino costituiscono i tributi del popolo seravezzino nei confronti di una personalità
d'eccezione, che meriterebbe maggiore fortuna. Al mattino, quando vedevo la luce incerta del primo
freddo sole che definiva piano piano ogni cosa, mi sembrava di veder risorgere il mondo di Pea,
incarnato nei volti, nei commenti, nella gestualità e mimica facciale degli abitanti, nei brividi
invernali delle piogge torrenziali, dalle quali mi riparavo nel bar proprio all’angolo della fermata del
bus delle sette e un quarto, assaporando il mio tè bollente con il croissant, prima del suono della
campanella delle otto e dieci.
Leggendo una vecchia raccolta di racconti del 1997, L’Arca di Noè, ho incominciato ad inoltrarmi
tra i sentieri letterari dello scrittore seravezzino, a scoprire la linfa della sua creatività; infatti attinge
pienamente ai propri ricordi d’infanzia e ogni pagina è intrisa di fitto autobiografismo; personaggi
sghembi, a tratti drammatici, bizzarri, individui singolari, che sembrano partoriti totalmente
dall’invenzione artistica e invece sono realmente esistiti, popolano le pagine quasi diaristiche della
sua prosa. Si può parlare di oggettivismo lirico d’ispirazione pavesiana: chiunque, anche alle nostre
latitudini, abbia conosciuto la realtà del paese, dei piccoli centri, può riconoscersi nelle vicende
rappresentate: le feste padronali, i ritmi scanditi dalle stagioni, "scemi" del villaggio più arguti dei
cosiddetti normali… insomma, un’umanità frastagliata, dolente, composita, complessa che Pea
registra con fare apparentemente referenziale; in realtà egli ama “tutte le sue creature” e le tiene a
debita distanza, solo per raccontarle meglio.

L’ambientazione, i territori, i paesaggi di riferimento riguardano la Versilia, la Garfagnana, la
lucchesia, tutti luoghi della memoria che vengono rievocati con potente espressività, a volte
nostalgica, più spesso icastica. “Qui è l’alta Versilia, sui cui castagneti cigolano le teleferiche. Qui è
la Versilia con i fianchi aperti, dilaniati dalle dirompenti mine, non a strage di guerra, ma a
scoperchiare quei blocchi enormi di marmo, che imbracati da cordame e catene da far paura, messi
con argani dalla montagna sui travi insevati come si fa per varare le navi, calati a valle. Macellati a
fette e a tocchi e a sagome (…) Qui è Versilia: un faticare tragico di uomini. Di bestie da tiro. Di
macchine e di esplosivi, sì che la terra che occultava il candore dei marmi sfavilla al sole, di rosso,
come viva carne umana straziata. E se le nubi in burrasca si disciolgono, dalla rupe squarciata cola
sangue". (E. Pea, 15 agosto 1947)
A Viareggio, città del Carnevale, della strage ferroviaria del 29 giugno 2009, della “passeggiata”
puntellata da appariscenti architetture liberty e dei lidi modaioli, c’è il cinema – teatro Politeama,
prova tangibile dei sacrifici e del lavoro di Pea, in qualità di impresario teatrale. All’interno, il filo
della storia passa attraverso una lunga serie di foto autografate in bianco e nero dai grandi attori, che
hanno, in questo luogo, recitato e firmato i loro successi.
Passeggiando nella grande piazza Garibaldi di Forte dei Marmi, in un angolo, si trova una lastra di
marmo, appesa nel ’69, che ricorda lo scrittore e il movimento di artisti e poeti nato all’ombra del
quarto platano. Non c’è nient’altro nella “città dei vip” che testimoni l’impegno letterario di quegli
anni. Al piccolo cimitero monumentale, nascosta in una galleria, una nuda lapide con su scritto il
nome, i dati anagrafici e la parola poeta a certificazione del percorso intellettuale e della storia.

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