Senza protezione. E licenziati. Sono i lavoratori che hanno pagato in prima persona il conto del lockdown. Hanno perso il loro posto a tempo indeterminato. Quasi 118mila, 117.921 per la precisione. I dati del ministero del Lavoro, che Huffpost è in grado di pubblicare in esclusiva, restituiscono il quadro dei lavoratori che non sono stati salvati dal blocco dei licenziamenti deciso a marzo dal Governo e prorogato, di volta in volta, fino al 31 marzo del prossimo anno. La stragrande maggioranza è rappresentato da donne: il 53% del totale a marzo, il 71% ad aprile, il 64% a maggio e il 63% a giugno.

I dati si riferiscono ai licenziamenti dei lavoratori impiegati nel settore privato con contratti a tempo indeterminato. E la definizione del perimetro è già di per sé significativa perché riguarda posti di lavoro fissi, non a termine. Il virus e la crisi li hanno cancellati per sempre. L’andamento, mese per mese, mette in evidenza i picchi: a marzo, quando la pandemia è entrata nel vivo, e a giugno, a ridosso di un’estate inedita, in cui evidentemente migliaia di imprese hanno fatto ricorso al licenziamento perché impossibilitate a tirare avanti con lo stesso numero di lavoratori in dotazione prima della crisi.

A marzo, quando per le imprese è scattato il divieto di licenziare, il totale dei licenziamenti è stato pari a 39.907. Il 53% donne, il 47% uomini. La stragrande maggioranza (32.025) dei casi è collocata alla voce “giustificato motivo oggettivo”, cioè licenziamenti per ragioni economiche. E sempre a questioni economiche sono da collegare i 1.581 licenziamenti collettivi. Con l’eccezione di aprile, quando i licenziamenti sono stati in tutto 18.596, il trend è stato costante anche nei mei successivi: 26.157 a maggio e 33.261 a giugno.

Se i licenziamenti per giusta casa e quelli per giustificato motivo soggettivo sono rimasti fuori dal blocco perché non sono legati a ragioni economiche, perché le imprese hanno licenziato per giustificato motivo oggettivo o ricorrendo al licenziamento collettivo, entrambi legati invece a motivazioni di tipo economico? Il Governo ha previsto tre deroghe al blocco dei licenziamenti, ma solo dal 18 agosto. Da quella data è possibile licenziare per cessazione definitiva dell’impresa conseguente a una messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività. E anche ricorrendo a un accordo collettivo aziendale che incentiva all’esodo: in questo caso l’azienda concorda la risoluzione del rapporto di lavoro con il singolo dipendente. La terza deroga è il fallimento dell’impresa. Ma i dati si riferiscono al periodo marzo-giugno, quando era in vigore il blocco generalizzato dei licenziamenti, senza la possibilità di eccezioni. In quei mesi, quindi, non era possibile licenziare né per giustificato motivo oggettivo né facendo ricorso al licenziamento collettivo. Eppure è successo. Perché?

Il faro va acceso sui licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, che rappresentano tra l’altro la voce più consistente del totale dei licenziamenti in tutti i mesi presi in considerazione: 32.025 a marzo, 14.395 ad aprile, 19.581 a maggio e 24.236 a giugno. Il ministero del Lavoro spiega che alcuni di questi licenziamenti sono stati possibili perché riguardano i lavoratori domestici. Colf e badanti sono esclusi dal divieto di licenziamento e quindi la risoluzione del loro rapporto di lavoro si è potuta fare rispettando la legge. Nello specifico, il ministero riferisce che “rispetto ai lavoratori per i quali non risulta attivato un altro rapporto di lavoro”, e quindi quelli licenziati e che tali sono rimasti, “dalle verifiche a campione effettuate è emerso che l’elenco trasmesso contiene anche comunicazioni relative a lavoratori domestici, come noto esclusi dal divieto di licenziamento nel periodo considerato”. E sempre il ministero spiega che dall’esame della banca dati complessiva delle comunicazioni UniLav (i moduli attraverso cui i datori di lavoro comunicano le informazioni sul rapporto di lavoro, tra cui figurano tra gli altri l’attivazione del rapporto e la data di fine rapporto) emerge “che parte dei lavoratori risultano già riassunti – presumibilmente – per attivazione delle procedure di cambio appalto”. Alcuni lavoratori, cioè, sono stati licenziati da un’impresa e poi riassunti in un’altra.

In sintesi: si parla “anche” di comunicazioni relative ai lavoratori domestici e di “una parte di lavoratori” già riassunti. Si conosce quindi la traccia di una parte dei 90.237 licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. E gli altri licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che non potevano essere fatti visto che era in vigore il blocco? I sindacati vogliono vederci chiaro. Il segretario generale della Fim-Cisl Roberto Benaglia dice a Huffpost: “Stiamo osservando che le leggi ci sono, ma c’è anche la pratica dell’azienda furba. Servono dati pubblici perché altrimenti qualcosa non torna. Ai nostri uffici arrivano segnalazioni di lavoratori che riferiscono di micro imprese, soprattutto nei settori più colpiti come la ristorazione e il turismo, che cercano di aggirare le norme. Dietro i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo potrebbero nascondersi dinamiche di aggiramento del divieto”.

Un’altra tabella, elaborata dall’Inps (l’elaborazione dei dati si ferma al 2 settembre), è utile per capire cosa è avvenuto sui licenziamenti da contratto a tempo indeterminato. Il primo giugno, l’Istituto ha diramato un messaggio in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo. In questo messaggio viene spiegato che l’Inps ha chiesto al ministero del Lavoro di esprimersi sulla possibilità di concedere la Naspi (l’indennità di disoccupazione) ai lavoratori “che hanno cessato involontariamente il rapporto di lavoro con la causale di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nonostante il divieto posto dal legislatore”. Il ministero ha risposto che si può fare “atteso che l’accertamento sulla legittimità o meno del licenziamento spetta al giudice di merito, così come l’individuazione della corretta tutela dovuta al prestatore”. In pratica l’Inps è stata autorizzata a concedere la Naspi anche ai lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo. Anche se questi licenziamenti, come spiegato, erano tutti vietati fino ad agosto. Sarà il giudice ad accertare se il licenziamento era legittimo o meno. Intanto, però, in un’ottica di protezione, al lavoratore viene data la Naspi. Ma se il giudice riterrà che quel licenziamento era illegittimo, allora il lavoratore, che tornerà ad avere il suo posto di lavoro, dovrà restituire i soldi della Naspi.

Ma soprattutto in questo passaggio del messaggio dell’Inps è contemplata l’ipotesi che i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ci siano stati nonostante il divieto. “Si fa presente – si legge nel testo – che l’erogazione della indennità NASpI a favore dei lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo – nonostante il divieto posto dall’articolo 46 del decreto Cura Italia – sarà effettuata da parte dell’Istituto con riserva di ripetizione di quanto erogato nella ipotesi in cui il lavoratore medesimo, a seguito di contenzioso giudiziale o stragiudiziale, dovesse essere reintegrato nel posto di lavoro”.

Al di là dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, i dati del ministero del Lavoro dicono anche un’altra cosa. I licenziamenti da marzo a giugno sono calati rispetto a gennaio e febbraio, quando il blocco non era in vigore. Ma non in modo così consistente da sostanziare il passaggio da un regime ordinario a uno speciale e protetto, quest’ultimo sintetizzato dal Governo nell’espressione “nessuno potrà licenziare durante l’emergenza Covid”. A gennaio, infatti, i licenziamenti sono stati 57.433, a febbraio 53.807, a marzo 39.907 e a giugno 33.261. Il blocco dei licenziamenti doveva salvare tutti i lavoratori, al massimo doveva tenere fuori alcuni dalla rete di protezione. E invece in tanti hanno pagato il conto del virus perdendo il posto di lavoro.

Fonte: huffingtonpost.it

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