Ci hanno insegnato che nella vita bisogna sacrificarsi, che per ottenere “qualcosa” e avere successo bisogna investire le proprie energie nel sacrificio, in qualsivoglia ambito che riempie l’esistenza; potrebbe essere vero nella misura in cui il sacrificarsi non incida con la tranquillità e stabilità mentale. Che cos’è il sacrificio? Nelle religioni pagane, il sacrificio era l’offerta della vittima alla divinità per renderle onore o propizia; poteva essere espiatorio o propiziatorio e veniva compiuto in una cerimonia nella quale l’offerta si compiva.
Potremmo citare le offerte fatte a Dio nel Cristianesimo o quelle fatte ad Allah nell’Islam.
Oggi, però, il sacrificio ha perso la sua accezione religiosa per intendere, invece, una rinuncia in onore di qualcuno o di qualcosa o il rimando ad una determinata attività in vista di un fine.
Ci si sacrifica in ogni contesto, che sia esso sociale, personale o lavorativo; il mettere in atto un atteggiamento di sottomissione, per il timore del giudizio altrui, pone l’essere umano in un circolo vizioso deleterio.
Il giudizio sopracitato è il primo motivo per cui ci si sacrifica: talvolta ci si sforza di plasmare il proprio essere, per farlo andare bene in un contesto in cui ci si sente costretti, in sofferenza e in frustrazione.
Una statistica portata avanti dalla rivista di psicologia e psicoterapia italiana, ha messo in evidenza che più della metà delle persone vive in una situazione di vulnerabilità e di stress causata dal non sentirsi nel proprio posto: un lavoro che, per cause di sopravvivenza, bisogna tenere stretto nonostante non faccia bene; un’amicizia tossica portata avanti per il tempo trascorso insieme; una relazione terminata ma che continua ad esistere per il mancato coraggio di chiuderla; un rapporto familiare che causa malessere e disagio emotivo, che esiste solo per il fatto di condividere un legame di sangue.
Perché accade? È fisiologico attuare un comportamento del genere? E la resilienza? Il bene per sé?
Difficile rispondere quando c’è l’obbligo di fare tutto nel modo giusto, per i concetti morali che dilagano e che portano a giudicare scelte e decisioni; è molto difficile non pesare le parole altrui che sfociano nel giudizio stesso, additando il modus operandi e la quotidianità dell’altro.
È atrocemente difficile pensare di vivere in una società priva di giudizi o di sacrifici: entrambi sono due facce della stessa medaglia, l’uno non esiste senza l’altro.
In questo contesto, più che progredire sembra che la regressione sia evidente sotto tutti i punti di vista: la comunità impone regole rigide, schematismi mentali, paraocchi e l’illusione che sacrificandosi, prima o poi, arrivi la felicità. Non sempre è la verità.