Di Gabriele Granato

Milano: Quando nel febbraio del 1986, un giovane imprenditore che rispondeva al nome di Silvio Berlusconi acquistava l’AC Milan – andando a chiudere il cerchio aperto con la creazione e crescita della Fininvest e successivamente di Mediaset – lo faceva con uno scopo ben preciso: portare la squadra di Milano sul tetto d’Italia e d’Europa per utilizzare quegli stessi successi sportivi per accreditarsi con un pezzo di società e consolidare una base di consenso popolare che gli permettessero nel giro di pochi anni di diventare “premier” del governo italiano e determinare così – come è stato – le sorti dell’intero paese.

Un meccanismo che oggi associamo a paesi come il Qatar o l’Arabia Saudita che utilizzano lo sport e il calcio in particolare per potersi integrare nel sistema economico e politico occidentale per determinarne sempre di più le scelte ma che ha avuto proprio nel presidente del Milan un suo pioniere.

Un legame quello tra calcio e politica che insomma è ben più saldo di quanto si pensi a dimostrazione di quanto fallace (o in malafede) sia la teoria spinta da tanti secondo cui il calcio e la politica scorrano su due binari paralleli destinati a non incontrarsi mai…

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