Il 4 gennaio, 2021, segna un monumentale traguardo per la comunità amerindia dei Klamath, una delle più antiche etnie di nativi americani appartenenti allo stato dell’Oregon. Grazie alla disponibilità di fondi pubblici, infatti, è stato possibile acquistare 1,100 acri di terreno che in origine apparteneva, di già, di diritto alla tribù. Per tutta la popolazione, dunque, il ritorno alla vita nella riserva è diventato il simbolo di un rimpatrio emotivo.
Originariamente la terra in possesso si estendeva per ben oltre settemila ettari che, malauguratamente, nel tempo era stata strappata dalle mani dei nativi per poi essere spartita, acro dopo acro, tra i potenti statunitensi. Difatti, malgrado le testimonianze e le evidenze ricavate dalle prove, “The Termination Act”, riconosciuto come la legge pubblica 587, emanato il 13 agosto del 1954, pose fine all’intero controllo federale sui terreni dei Klamath.
Nel documentario “Your land, my land” di Reagan Ramsey, uno dei nativi, Edison Chiloqui spiegò quanto le informazioni riguardo la trattativa di compra-vendita fossero fuorvianti all’epoca: “non riuscivo a capire.
Non ero istruito come molti giovani lo sono adesso. Lasciai la scuola per poter lavorare e non ho mai rimesso piede. Ma quello che capii con sicurezza, fu che non vi era nulla di buono”. Poco dopo arrivò, inoltre, la decisione da parte delle autorità di Washington di sospendere anche gli aiuti federali forniti fino a quel momento. Quella vita, condotta a statuto speciale da intere generazioni di Indiani, era arrivata allo stop.

Ma cosa rendeva questi possedimenti tanto appetibili?
La riserva comprendeva un’estesa foresta e vasto accesso alle risorse d’acqua con numerose sorgenti naturali. Ricchezze pure, le poche rimaste intatte negli Stati Uniti. Viste come vere e proprie tesoriere di legname, depositi sotterranei di minerali più rari.
Ecco perché vennero sottratti tutti i beni, ma in cambio di denaro che però “sembrava tanto inizialmente.
Soldi che non avevamo mai visto, né avuto necessità di utilizzare prima d’allora”. Le parole di Barbara Kirk – Bravo, sono parte delle testimonianze raccolte dalla ricercatrice Emily Foley per KGW- TV, e aiutano a comprendere lo smarrimento avvertito dalla popolazione autoctona subito dopo il trasferimento in società.
Non avevano più alcun diritto legale. La perdita della madre patria prima, si trasformò poi nella paura di una futura morte, a poco a poco, di un’intera civiltà ancestrale. In una intervista riportata sul “The Guardian” Willa Powless, nativa, dimostra come Il governo ‘dei Bianchi’ diventò ai loro occhi il corrispettivo oltreoceano di quello che aveva rappresentato Londra ab illo tempore. Mosso dalla sete di potere economico-politico. Fautore di sapere e progresso, ma in realtà artefice di un genocidio culturale: “le nostre
genti sono nate in stretta connessione spirituale con la terra. Terra che tutti noi sentiamo e conosciamo, come i nostri antenati ci hanno insegnato”.
Barbara Alatorre sottolineò nel cortometraggio il senso di appartenenza delle sue genti: “A prescindere da cosa il governo abbia potuto farci, non abbiamo mai smesso di essere dei Klamath, e quelle terre sono parte di noi da sempre”. A dimostrazione che in quella culla di tradizioni e miti, il ritorno, là, nella riserva, custode di memorie e leggende ha simboleggiato finalmente “uno dei processi di guarigione più potenti che abbiamo mai provato dopo tanto tempo”.

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